La signora in nero

Viveva al pianoterra di un palazzo un po’ decentrato in città.
La sua casa aveva uno spazio verde accessibile dal balconcino della cucina. Non era molto curato, alla sua età la donna non poteva più permetterselo. E poi era sempre stato suo marito a pensarci. Quanti anni ormai? Dieci? Quindici? Non lo ricordava mai subito con certezza: di certezza ne aveva solo una, che lui non c’era più.
Incolto
Quel tumore l’aveva divorato dall’interno a poco a poco e, quando il medico gli aveva diagnosticato quel male, la sola sigaretta che si concedeva una volta ogni tanto aveva ormai l’unico potere di permettergli di respirare il passato per qualche lungo istante. La sofferenza era durata poco per fortuna e dopo pochi anni il suo uomo l’aveva lasciata socchiudendo gli occhi per l’ultima volta sotto il suo sguardo vigile. Lei, che lo aveva accompagnato con dedizione attraverso quel cammino doloroso che era sembrato interminabile, si era ritrovata improvvisamente sola. Dello sguardo silenzioso e del corpo stanco del marito non era rimasta più traccia nel suo presente quotidiano. Soltanto l’abito che aveva scelto di vestire la copriva fisicamente ogni giorno dell’assenza di quell’uomo e in quel guscio nero si rifugiava, più ricordo a se stessa che testimonianza agli occhi altrui.

La sua vita era continuata, forse più intensa di prima. Poco tempo dopo la morte del marito, la figlia della donna aveva divorziato e, in mancanza di uno stipendio sufficiente a mantenere un appartamento abbastanza grande, si era trasferita a casa della madre con i due bambini di quattro e sei anni.
La donna lavorava tutto il giorno e, per quanto avesse cercato di gravare il meno possibile sulla madre, era questa che doveva dedicarsi alla casa, come aveva sempre fatto in vita sua d’altronde. Questa volta però il carico di lavoro di una famiglia di quattro persone le pesava di più rispetto a quarant’anni prima: il suo corpo la obbligava a rallentare il corso veloce dei suoi programmi per la giornata, la fatica non era un’ombra leggera visibile solo la sera e certi sforzi la sfibravano in pochi minuti.
Così, anche per questo motivo, il verde del piccolo giardino che separava la casa dalla strada era diventato in poco tempo una macchia indistinta di trifogli ed erba alta. Gli unici abitanti di quello spazio erano i gatti che a volte si vedevano scomparire sotto il colore uniforme che debordava dal basso muretto della recinzione. Proprio lì gli inquilini dei palazzi vicini lasciavano le vaschette di plastica con i resti della sera precedente e con l’acqua tanto vecchia da avere arrugginito il metallo della cancellata che sormontava il muretto. Capitava spesso, passando di là, di vedere quei piccoli equilibristi a quattro zampe percorrere guardinghi il perimetro del giardino incolto, annusare curiosi ciò che rimaneva dei pensieri generosi di signore premurose e di sinceri sostenitori della caccia ai roditori, e allontanarsi saltando sui cassonetti dell’immondizia.

La signora in nero non badava però a quei visitatori clandestini del suo giardino. Spesso preferiva non guardarlo per evitare che quel verde senza controllo infestasse anche la sua anima. E, d’altro canto, non era difficile sottrarsi a quella vista dolorosa: il balcone della cucina era talmente piccolo che non poteva accogliere nessun ospite e la donna l’aveva cominciato a utilizzare solo come spazio per stendere i panni bagnati. Purtroppo era l’unico balcone della casa e, data la mole di vestiti che lavava ogni giorno da quando sua figlia era venuta a vivere in casa sua, era anche l’unico spazio dove potesse fare asciugare al sole tutta quella roba. Aveva a disposizione tre lunghi fili che, fissati ai due estremi del lato più lungo del balcone, creavano tre curve morbide parallele che per forma ricordavano lo scheletro di un’amaca. La donna, di bassa statura e un po’ ingobbita dal peso degli anni, arrivava con difficoltà a coprire le estremità più alte dei fili con i vestiti bagnati, ma alla fine della sua impresa quotidiana lo spettacolo era assicurato. Sospesa su quel piccolo balcone era esibita una varietà incredibile di tinte accese che non lasciavano immaginare le sfumature assenti da quel novero ricco di colori. Macchie dalle forme irregolari di pantaloni e magliette si sovrapponevano sotto il sole del primo mattino mentre il vento le faceva dialogare gesticolanti tra loro.

A chi avesse avuto l’occasione, ogni mattina avrebbe visto una scena tanto curiosa da sorriderne: un’anziana signora in nero usciva in balcone con lo sguardo basso e lentamente caricava quei fili di colori brillanti: rossi, gialli, azzurri l’uno sull’altro, fino al limite sopportabile da quelle corde morbide; e poi, così come era uscita, occhi già fissi sulla prossima faccenda da sbrigare e gesti lenti e silenziosi, la donna in nero rientrava, scostando i panni bagnati per farsi largo e scomparire dietro le tende del magnifico sipario allestito.
A chi rimaneva lì a guardare veniva da chiedersi se quella donna sapesse di far fiorire di colori ogni giorno il suo giardino, se sapesse di regalare luce a quello spazio di strada, lei che, in nero, aveva scelto di coprirsi in silenzio del suo dolore.

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