Rivelazione


Buio, grigio, umido. Ecco come potrebbe descriversi in sintesi quel percorso. Certo, si potrebbero usare tanti altri aggettivi più ricchi e tante perifrasi complicate per disegnarne ogni anfratto, senza tralasciare la più piccola pietra tagliente di roccia grezza; si potrebbe cercare di segmentare quel cammino impervio, cercando di individuare una sottile ferita nel terreno a forma di “S” o l’ombra polverizzata di un leggero ramoscello carbonizzatosi ormai da decenni su quel deserto abbandonato dalla vita, o qualsiasi altra piccola, insignificante caratteristica che possa giustificare il fragile tentativo di diversificare porzioni di quell’interminabile tracciato scavato nella pietra. Ma ci vorrebbe molta pazienza, e un’immaginazione a dir poco visionaria… perché, vedete, quello è davvero un posto terribile. E non tanto per l’angosciante desolazione che lo domina incontrastata o per l’assenza assoluta di suoni o rumori di ogni tipo, versi di animali grotteschi o disastrose e rovinose cadute di massi (solo queste le onde sonore che possono attraversare quel luogo, anche volendo avventurarsi a vele spiegate nel regno della più sfrenata allucinazione); ma no, non è questo a rendere terrificante quel posto. Forse lo sarebbe se ci si limitasse a sorvolare dall’alto quella distesa: impressionante sì, ma quasi un incubo a cui è impossibile credere. È a chi lo percorre dall’interno che colpisce la vera mostruosità di quel luogo, e se provate a immaginare di farlo potrete capire facilmente il perché.

Accidentato e irregolare, scosceso e ripido a intervalli quasi spastici, chiamarlo “sentiero” sarebbe mancanza di realismo, oltre che di buonsenso. L’“escursionista” appiedato è l’unico esploratore possibile, non il “preferibile” per quel terreno: lenti e continuamente minacciati da qualsiasi escrescenza rocciosa da cui si è circondati, si procede stretti in una morsa come prigionieri di “un errore di calcolo” di un gigante senza volto che abbia sbagliato a intaccare quell’ammasso roccioso e che, appena poco dopo aver affondato la lama tagliente in quel frammento di pietra, abbia ritirato la mano correggendo il tiro. Ecco, è questa più o meno la sensazione che si prova lì dentro: di affidare il sostegno del proprio corpo a un errore di distrazione.
Eppure, non era a questo che mi riferivo quando parlavo di orrore, o perlomeno, non completamente: provate a estendere questa a dir poco “sgradevole” sensazione nella quarta dimensione avendo cura di mantenerne uniforme l’intensità e di lasciare sospesa nell’Universo dell’Improbabile un’eventuale interruzione dell’intervallo di tempo che state prendendo in considerazione; in tal modo, dovreste avere una vaga idea di quello che intendo.
A queste condizioni, il terrore che sopra tutti affannerebbe il vostro cuore sarebbe uno soltanto: questa strada non ha fine. Sterminata distesa di rocce pietre e polvere talmente grande da sembrare infinita, talmente identica a se stessa da far perdere ogni riferimento.

All’improvviso, solo una spiegazione potrebbe riconoscersi realistica: voi siete fermi, è il terreno a muoversi avanti e indietro come la continua, maniacale sovrapposizione di un unico fotogramma legato a se stesso nel destino di una sola, infinita pellicola. A quel punto, ogni porzione di percorso diventerebbe incredibilmente insignificante nella claustrofobica ripetizione di se stessa, perdendo ogni valore, negando ogni vano tentativo di essere nominata riconoscendole una qualche sottile caratteristica che possa differenziarla dalle altre, innumerevoli, parti precedenti o successive. A chi percorra ormai per inerzia quel cammino senza scampo, basterebbero soltanto pochi aggettivi per descriverlo nella sua interezza: buio, grigio, umido.
Ed è quando ognuna di queste fantasiose e futili elucubrazioni è già stata assecondata, ispezionata in lungo e in largo, scavata fino al suo scheletro logico più essenziale, ripetuta nelle sue innumerevoli varianti e, infine, abbandonata più per esaurimento delle possibilità che delle forze mentali o fisiche, allora interferisce una infinitesimale variazione; quando quel panorama labirintico si riflette sulla vostra retina da tanto di quel tempo che pensate, non poco seriamente, che ci si possa essere scolpito indelebilmente, tanto che, se davvero un giorno vi fosse possibile uscire da quel luogo, i vostri occhi vi negherebbero persino di accorgervene condannandovi a un’eterna prigionia, allora qualcosa di appena percepibile interviene a modificare quell’immagine.

E non vi stupisca che sia una cosa impalpabile e non un oggetto dotato di un volume e di un peso visibili, perché qualità come queste diventano indifferenti a lungo andare in un luogo del genere: costretti tra lastre affilate di pietra, concrezioni calcaree dalle più svariate sfumature di grigio e aria satura di minuscoli granelli di polvere, sollevata a ogni vostro passo e respirata a pieni polmoni a ogni ricaduta, la fisicità grande o piccola di frammenti di roccia perde ogni rilevanza. No, non è alla solidità delle dimensioni delle cose che fate caso, non in quell’inventario così completo delle manifestazioni solide dell’unica materia che popola quella ferita terrestre, dallo sformato macigno alla polvere soffocante. Ciò che può colpire la sensibilità assuefatta del vostro occhio è unicamente un elemento: il colore.
Come il cielo che sovrasta l’oceano assume la profondità del blu degli abissi, l’atmosfera che abita quell’anfratto riflette l’unico colore visibile per chilometri, il grigio, che impregna granuloso e pervasivo lo spazio dalla terra al sole. Più solido e fitto della nebbia, impedisce persino l’ultimo sollievo del viaggiatore che chieda ristoro in uno sguardo alto in fuga dalla prigione del corpo. Immaginate, dunque, quale felice sorpresa può inondare il cuore di uno sfortunato perso in quest’anfratto dimenticato quando un’altra tonalità di colore invade timida il suo campo visivo. Riconosciuta dapprima semplicemente come “non-grigia”, diventa immediatamente motivo di forza rinnovata, autoprodotta dal nulla come in un miracolo della fisica. Attraversa come una lama lo spazio e ne assume curiosamente anche la forma. Privata della materia, appare ferma e netta nella sua impalpabile trasparenza. Divina. Diventa da subito il suo oggetto di venerazione, e come biasimare d’altronde una tale scelta “di culto”?
D’improvviso quella superficie (o sarebbe meglio parlare di volume? Non è ben chiaro il tipo di estensione del colore) ha concesso una possibilità nuova alla mente dell’uomo costretto in quel luogo: adesso c’è un posto degno di un nome. Adesso è possibile concepire un movimento perché adesso c’è un “prima” e un “dopo”, un “qui” e un “lì”. Adesso camminare non è più un verbo di stato. La rivelazione è paralizzante. Paradossalmente, la ritrovata possibilità di muoversi genera la paralisi. Ma è solo questione di attimi, intendiamoci, niente per cui perdere la testa.

La reazione immediatamente opposta, infatti, è la corsa, spasmodica e totalmente dimentica di ogni asperità del terreno. Solo una cosa occupa lo sguardo, una cosa che diventa grande nei pochi lunghi passi che separano il viaggiatore dalla meta, grande, immensa, quasi… scomparsa. Con la velocità di brevi scatti vibranti, quella lama è diventata prima alta quanto l’uomo, poi di più e infine è svanita, proprio quando gli sembrava quasi di poterla toccare. Ma da toccare non c’è proprio nulla, e in effetti questo voi lo sapevate, no? In fondo, è dal principio di questa apparizione che non ho fatto altro che dirvi come la fisicità palpabile sia la qualità che più di ogni altra perde di importanza in questo racconto. Ma badate, non si trattava di mera retorica: questa “cosa” è davvero priva di solidità, perlomeno a occhio nudo. Ma andiamo con ordine.
Il nostro escursionista sfortunato è lì, con un pugno di mosche in mano apparentemente, sconsolato per la perdita di una promessa subito rinnegata. Eppure, si tratta solo di attimi, per fortuna, giusto il tempo di fare mezzo passo affranto in avanti, volgersi di nuovo indietro e accorgersi che quella superficie di colore non è affatto svanita nel nulla, ma di nuovo lì, al suo posto. Gioia pura! Un altro passo e… di nuovo non più. Di nuovo tutto uguale, di nuovo tutto grigio e… una fessura profonda sulla parete di fronte. Più profonda di quelle viste finora ma anche più superficiale in un certo senso… come spiegarlo? Sembra come se un pastello denso del colore della pece abbia lasciato un segno profondo su quella porzione di roccia: il risultato è una galassia di granuli scuri depositati come fuliggine sul grigio fin troppo noto. Strano… la mano del viaggiatore si avvicina a toccare quel fenomeno nuovo per scoprire che quella macchia di nero gli si è attaccata alle dita e… è fredda, umida. È roccia. È ombra sulla roccia. Bastano altri due secondi e poi lo sguardo corre giù verso il basso fino ai piedi, immersi in un bagno caldo di… luce, quel vetro colorato tanto sfuggente…

Nel secondo successivo si susseguono una serie di azioni dell’uomo che vanno dal sorriso alla giravolta su se stesso alla vista di un panorama la cui bellezza intrinseca è pari soltanto alla sorpresa del nostro non più sfortunato escursionista di trovarsi di fronte a uno spettacolo che non è una grigia, buia, umida, parete rocciosa. Un bagliore accecante per degli occhi abituati a tutt’altro da un tempo incalcolabile. E un’esplosione dorata, come pioggia di lucciole nella notte più nera. E pensare che quelle particelle luminose sono gli stessi microscopici frammenti di pietra che ormai rivestono le pareti interne dei suoi polmoni… come appaiono preziosi adesso…
Non resta che seguire come ipnotizzati quello squarcio nella prigione di roccia e la luce, che fino a un secondo prima sembrava il tesoro che sopra ogni altro contenesse la risposta a qualsiasi tormento, quella lama di oro da respirare, ritorna a rivestire il ruolo di molto ridimensionato che solitamente le è affidato, quello di semplice strumento per vedere. E ciò accade quando qualcosa di ben più maestoso inonda la mente del viaggiatore.
Subito oltre le strette quinte di roccia, si staglia una vista da mozzare il fiato, letteralmente. Verde, bianco, celeste; punte acuminate che sfidano il cielo a duellare, antri ricavati in profondità da candele soffuse, specchi opachi come dischi immensi incastonati nella pietra grezza; e, a racchiudere quel gioiello marmoreo in un soffice scrigno, una foresta di chiome, un letto scosceso di piccole (a quella distanza) vette-smeraldo, improvvisamente interrotto dal dirupo che separa il nostro escursionista da quello spettacolo. Ma una sottile linea di riflessi argentei tiene unito quel regno incantato al deserto grigio dell’osservatore: una speranza della consistenza di un miraggio, all’occhio incredulo del prigioniero liberato, che si rivela essere un sentiero solidamente aggrappato a diramazioni calcaree di quella stessa roccia che ha costruito la disperazione del viaggiatore per chissà quanto tempo. La pietra del carcere di giorni e notti interminabili è la materia prima dell’oasi promessa dalla vista ritrovata. Che ironia.

Non rimane che lasciare che quel paesaggio idilliaco coinvolga tutti gli altri sensi per rendere più reale la visione. E così l’escursionista lascia con gioia alle sue spalle quell’anfratto impervio di roccia grezza, e con esso quella sottile lama dorata tanto agognata al primo sguardo: la luce è tornata al suo posto, la luce ha ripreso il suo nome.

Proudly powered by WordPress | Theme: Baskerville 2 by Anders Noren.

Up ↑