Scambio

Mani nodose. Occhi svegli, nonostante tutto.
“Occhi da amare” gli avevano detto. Erano anni che non sentiva più quella voce, anni…
A quello scricciolo avevano dato il suo nome, così aveva capito.
Che ironia. Un batuffolo di qualche centimetro appena con gli occhi spalancati vedeva probabilmente con la stessa nitidezza del suo sguardo offuscato dalla cataratta. E portavano lo stesso nome.
Una piega sottile increspò quel mare di rughe, impercettibile onda nell’immutabilità di quel panorama antico.

Poco ormai cambiava di anno in anno in quel paesaggio. Le grandi rivoluzioni erano già passate, i loro segni abitavano quei luoghi da così tanto tempo da renderli riconoscibili ai più.
La vita si era aggrappata a quel volto, l’aveva modellato come il vento e la pioggia, si era infiltrata in ogni fessura, come la luce in soffitta. Aveva incontrato pochi ostacoli sul suo cammino, spesso solo semplici deviazioni.
Gli unici riflessi venivano dal bianco esteso del capo, così ricco di sfumature, dall’argento al grigio più scuro, da far chiedere la ragione dell’esistenza di un arcobaleno così male assortito come quello dell’iride: da sole quelle tinte neutre così simili tra loro superavano di gran lunga in armonia ogni altro accostamento più appariscente.
Un brivido improvviso attraversò quel corpo dai movimenti lenti.
Freddo. Eppure era coperto, anche troppo. Da quando era arrivato non avevano fatto altro che imbottirlo di ogni genere di tessuto trapuntato, fino a sigillare per bene ogni frammento di pelle.
“Copriti bene, papà”, “Fa freddo qui”, “Un cappellino per il nonno?”. Per un po’ aveva pensato che a sera l’avrebbero lasciato lì credendolo l’attaccapanni.
Ma nonostante tutte le premure affettuose quel brivido non sembrò affatto rallentato dallo spesso strato di coperte e maglioni che si contendevano il merito di proteggerlo da ogni soffio di vento.

Con uno sguardo alle mani colse quell’infinitesimale vibrazione dei muscoli. Le sue mani. A stento le riconosceva ormai. Non stringevano con forza da… beh, aveva dimenticato da quanto, eppure dormivano stanche di fronte a lui come se non avessero fatto altro da giorni. Piccole costellazioni di macchie scure avevano colonizzato la loro superficie irregolare mentre grandi canali venosi si mostravano generosi su quei rilievi, irrigando ogni più stretta insenatura di quelle isole a cinque punte.
Aveva scritto la cronaca dei suoi giorni su quelle mani, testimoni fedeli. Il pensiero lo fece sorridere e di nuovo si inarcarono appena quelle labbra sottili. Poi fu questione di un attimo.
Buio, nebbia. Nello spazio di un respiro, si impadronì di lui l’istinto di chiudere gli occhi per trattenere il dolore impedendogli di mandare in frantumi quell’involucro stanco, poi sentì affievolirsi quasi repentinamente ogni volontà o controllo residuo: occhi di nuovo aperti.
Un’immensa supernova era appena esplosa nel silenzio dello spazio e la sua luce aveva brillato per un istante infinito dietro quelle palpebre chiuse. Al loro riaprirsi nulla era cambiato, milioni di altri universi continuavano la loro vita indisturbati. Tutti tranne uno.

Due occhi giovani, attenti e silenziosi, proprio di fronte, avevano visto una lieve nuvola attraversare quello sguardo nebbioso. Finora si erano aggirati veloci senza trovare nulla di interessante su cui fermarsi.
Tutto lì attorno era terribilmente familiare e prevedibile, dai gesti ripetuti alle frasi già sentite, nel solito rito di compagnia che vigeva in quelle riunioni. E le facce che lo circondavano, sempre le stesse, stirate in smorfie sorridenti o impegnate in urla di scherzo, anche loro viste e riviste.
Certo, la novità del giorno, il piccoletto che dormiva comodo in due mani, aveva movimentato un po’ l’ambiente, ma per non più di qualche ora. Adesso, dopo i primi commenti entusiasti e le battute da manuale, tutto stava tornando ordinario. Fu, quindi, con un po’ di noia insofferente che quegli occhi perennemente alla ricerca colsero quel sottile cambiamento nello sguardo del vecchio.

Era stato come un passo indietro, un lento ma inesorabile retrocedere e la fioca luce che colorava quell’iride, cerchiata dal celeste che il tempo dona a chi lo contempla più a lungo, si era dissolta. Per il resto, ogni cosa era rimasta uguale. Persino quel corpo immobile non aveva cercato in alcun modo di attirare l’attenzione su di sé in quell’istante estremo. Ma la cosa più strana di quello spettacolo imprevisto fu la chiarezza disarmante e violenta con cui colpì il suo unico spettatore: nessun dubbio in quel momento aveva attraversato la mente del ragazzo sull’interpretazione di quello che aveva visto, lui stesso se ne era stupito quando tempo dopo si era fermato a pensarci.
La luce, la briciola di materia che era sembrata scomparire, non era andata lontano: aveva invaso un altro sguardo cambiandone i colori, irreversibilmente.

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